Quando racconti di un ricordo che vede te come protagonista della tua infanzia, devi mettere in conto che le cose e le persone di cui scrivi, erano in realtà diverse. Soprattutto nelle dimensioni delle cose e questo avviene semplicemente e soltanto perché a essere piccolo eri tu.
Sono sempre stata un’apparente bambina silenziosa, un vulcano di pensieri che sbottavano all’improvviso. Il pianto e il sorriso erano parenti stretti sul mio viso quasi a lottare l’uno contro l’altro, senza che mai uno prevaricasse troppo sull’altro. Ma il sorriso aveva poi sempre la meglio quando la vita lo consentiva. Non so perché si pensi che un bambino sia spensierato a prescindere.
I miei capelli biondi erano corti e ribelli, non ricci. Lo si vede anche nelle foto in bianco e nero: ero brutta di una bruttezza voluta, che a volte creavo spettinandomi e facendo smorfie improponibili. Tutto fatto per disobbedire a mio padre, spesso fotografo improvvisato, o per mascherare abilmente le mie insicurezze che già facevano capolino nella mia mente. Con i capelli fuori posto e arricciando il naso, gli facevo sistematicamente perdere la pazienza.
All’età di quasi quattro anni, all’improvviso fui catapultata dal mondo dei giochi a quello di medici e ospedali. Cominciai di punto in bianco a stare così male da non reggermi più in piedi. Vomitavo continuamente e il letto e le pareti della mia stanza diventarono miei compagni. Fu tutto imposto, non scelto e mai calcolato. Smisi di essere capace di regalare ilarità anche quando non era richiesta e smisi di saltare sulle sedie a farne un meraviglioso palco per le recitazioni più assurde.
Ricordo ancora in maniera indelebile il malessere crescente e l’inspiegabile essere passati da un’energia irrefrenabile a una stanchezza che mi impediva anche di parlare. I volti dei miei genitori diventarono cupi e smisi di frequentare anche la scuola. Fuori la primavera spingeva prepotentemente le ante della finestra e, siccome la mia stanza affacciava su un giardino, il profumo dei fiori d’arancio, che avrebbe dovuto unirsi a sorrisi e rinascita, non lo notò più nessuno.
In casa mia in quel periodo tutto si respirava tranne che l’idea di uno sbocciare di cose nuove e belle. Quando riuscivo ad avere una brevissima tregua al mio sentirmi debole e sofferente, pensavo che avrei voluto solo correre all’impazzata o correre semplicemente a giocare.
Forse è anche per questo che non mi piace vedere soffrire i bambini o soltanto pensare a quelli che hanno conosciuto un mondo fatto di cose che non si possono fare e di poche cose permesse. Se mi capita di vederne qualcuno che non può correre, mi sembra che tutto ciò sia soltanto il maledetto scherzo di un destino che dovrebbe assolutamente cambiare.
Mancava poco alla Pasqua.
Smisi di nutrirmi e vani furono i tentativi dei medici, di mia madre e di mio padre perché io mettessi qualcosa in bocca. Quando ci riuscivo la conseguenza immotivata era stare malissimo. Ricordo come fosse ora i volti dei medici arrivati numerosi al mio capezzale. I miei spesero molti soldi di sicuro per farmi visitare dai più bravi, ma nessuno seppe fare una diagnosi. Lo scuotere delle loro teste non mi fece presagire cose buone. Non seppi spiegarmi del perché tutto ciò stesse accadendo e forse qualche volta pensai anche di essermelo meritato. Arrivò anche il prete e pronunciò preghiere strane. Il suo volto era come di chi sta dando l’estrema unzione.
Poi accadde qualcosa che ricordo molto bene. Era un pomeriggio di sole, ma nella stanza c’era penombra, troppa penombra. Arrivò una persona che pretese a tutti i costi di entrare nella mia stanza. Si sedette accanto al mio letto e mi fece qualche domanda che neppure ascoltai, mentre me ne stavo con gli occhi chiusi e senza reagire. All’improvviso lei scoppiò in un pianto irrefrenabile e, mentre mia madre la trascinava di peso in un’altra stanza, lei ebbe appena il tempo di urlare nel silenzio: “Non è giusto! Non può morire!”
Provai un senso di paura assurda.
Aspettai con impazienza che qualcuno tornasse nella mia stanza. Urlai, a stento, come in un incubo, uno di quelli in cui cerchi di gridare e non ci riesci. Urlai e piansi: volevo che quel silenzio si rompesse e che entrasse la luce dalla finestra spingendo via la penombra della malattia.
Poi, dopo qualche giorno, lentamente, molto lentamente, ricominciai a mangiare. Pochissimo e spesso come fanno gli uccellini e la mia mamma non mi mollò un attimo. Non mi mollò mio padre quando tornava dal lavoro. In un paio di mesi iniziò gradatamente la mia corsa verso il riappropriarsi di un’infanzia che per fortuna oggi è nei ricordi di un’adulta.
Ogni tanto riguardo le foto di quel periodo in cui ero magra da far paura e che mi furono scattate solo dopo che ripresi un po’ di chili.
Penso che una cosa è certa: qualsiasi vicissitudine difficile io abbia avuto nella vita da quel momento in poi, mi ha sempre trovata forte come allora, con i capelli volutamente spettinati e uno sguardo comico e dispettoso.
By Vicky